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Francesco De Sanctis elegge Leon Battista Alberti a emblema dell’Umanesimo, "uomo nuovo e universale" della nuova cultura che abbraccia con la stessa intelligente curiosità il mondo della natura e quello dell’anima. I valori laici del tempo, del lavoro, dell’onesto piacere stanno alla base di questa centrale figura di intellettuale che trova nell’amoroso perseguimento della bella forma la concreta corrispondenza di una armoniosa tranquillità interiore. Il Pulci, il Boiardo, il Poliziano, Lorenzo, il Pontano e tutti gli eruditi e i rimatori di quell'età non sono che frammenti di questo mondo letterario, ancora nello stato di preparazione, senza sintesi. Ci è un uomo che per la sua universalità parrebbe volesse abbracciarlo tutto, dico Leon Battista Alberti, pittore, architetto, poeta, erudito, filosofo e letterato; fiorentino di origine, nato a Venezia, educato a Bologna, cresciuto a Roma e a Ferrara, vivuto lungamente a Firenze accanto al Ficino, al Landino, al Filelfo; caro a' papi, a Giovan Francesco signore di Mantova, a Lionello d'Este, a Federigo di Montefeltro; celebrato da' contemporanei come "uomo dottissimo e di miracoloso ingegno", "vir ingenii elegantis, acerrimi iudicii, exquisitissimaeque doctrinae", dice il Poliziano. Destrissimo nelle arti cavalleresche, compì i suoi studi a Bologna dalle lettere sino alle leggi, datosi poi con ardore alle matematiche e alla fisica. Deesi a lui la facciata di Santa Maria Novella, la cappella di San Pancrazio, il palazzo Rucellai, la chiesa di Sant'Andrea in Mantova e di San Francesco in Rimini. Sono suoi trovati la camera ottica, il reticolo de' pittori e l'istrumento per misurare la profondità del mare, detto "bolide albertiana". Nelle sue Piacevolezze matematiche trovi non pochi problemi di molto interesse, e nei suoi libri Dell'architettura, che gli procacciarono il nome di "Vitruvio moderno", hai cenni di parecchie invenzioni o fatte o intravedute. I suoi Rudimenti e i suoi Elementi di pittura e la sua Statua contengono preziosi insegnamenti tecnici di queste arti. Fu così pratico del latino, che un suo scherzo comico scritto a venti anni e intitolato Philodoxeos, venne da tutti gli eruditi attribuito a un antico scrittore latino, e da Alberto d'Eyb a Carlo Marsuppini, professore di rettorica a Firenze e segretario della repubblica. E non minor pratica ebbe del volgare, in prosa e in verso, addestratosi anche nel maneggio del dialetto, quando con Cosimo de' Medici e gli altri sbanditi fu richiamato in Firenze. Ne' suoi Intercenali o "intrattenimenti della cena", ne' suoi Apologhi, nel suo Momo scritto a Roma il 1451, dove rappresenta se stesso, piacevoleggia con urbanità. Scrisse i soliti sonetti e canzoni: e chi non ne scrivea allora? O chi non ne scrisse poi? Meglio riuscirono le sue Egloghe e le sue Elegie, amorosi idilli, come era la voga dal Boccaccio in qua. Era in voga anche Platone, e platonizzò. Ma al suo ingegno così pratico, così lontano dalle astrazioni, non potea piacere il misticismo platonico, che facea andare in visibilio il suo amico Ficino, e lo seguì come artista ne' suoi dialoghi della Tranquillità dell'animo e della Famiglia, il cui terzo libro fu lungo tempo attribuito al Pandolfini, e del Teogenio o della vita civile e rusticana. Tali sono pure l'Ecatomfilea, la Deifira, la Cena di famiglia, la Sofrona, la Deiciarchia. Il dialogo è la sua maniera prediletta, un certo discorrere alla familiare e alla buona, così alieno dalle pedanterie scolastiche, e che trovi anche dove parla uno solo come nelle sue Efebie, nella sua epistola sull'Amore, nella sua Amiria. Chi misura l'ingegno dalla quantità delle opere e dalla varietà delle cognizioni, dee tenerlo ingegno così miracoloso come fu tenuto a quel tempo. Certo, egli fu l'uomo più colto del suo tempo e l'immagine più compiuta del secolo nelle sue tendenze. Battista ha già tutta la fisonomia dell'uomo nuovo, come si andava elaborando in Italia. La scienza, svestite le sue forme convenzionali, è in lui amabile e familiare. Lascia le discussioni teologiche e ontologiche. Materia delle sue investigazioni è la morale e la fisica con tutte le sue attinenze, cioè l'uomo e la natura così com'è, secondo l'esperienza, il nuovo regno della scienza. È un artista, perchè non solo studia e comprende, ma contempla, vagheggia, ama l'uomo e la natura. Anima idillica e tranquilla, alieno dalle agitazioni politiche, ritirato nella pace e nell'affetto della famiglia, abitante in ispirito più in villa che in città, non curante di ricchezze e di onori, vuoto di ogni cupidigia e ambizione, si formò una filosofia conforme, di cui è base l' "aurea mediocritas", una moderazione ed eguaglianza d'animo, che ti tenga fuori di ogni turbazione. Il suo amore della natura campestre non ha nulla di sentimentale e d'indefinito, che t'induca a fantasticare; anzi tutto è disegnato partitamente con la sagacia di un osservatore intelligente e con l'impressione fresca di uomo che se ne senta ricreare l'occhio e riposare l'anima. E non è la natura in se stessa che lo alletta, com'è ne' "quadretti di genere" del Poliziano, ma è l'uomo nella natura: il paesaggio è un fondo appena abbozzato, sul quale vedi muoversi la vita campestre in quella sua temperanza e tranquillità, dov'è posto l'ideale della felicità. Il vero protagonista è perciò l'uomo, com'era concepito allora, sottratto alle tempeste della vita pubblica, che cerca pace e riposo nel seno della famiglia e tra' campi, tutto alle sue faccende e a' suoi onesti diletti. Ma è insieme l'uomo colto e civile e umano, che disputa e ragiona nel cerchio degli amici e con la famiglia attorno, porgendo utili ammaestramenti intorno all'arte della vita. La quale arte si può ridurre in questa sentenza: che l'uomo dee tener lontane da sè le passioni e le turbazioni dello spirito e serbar regola e modo in tutte le cose. Questo equilibrio interno, metà epicureo, è quella pace che Dante cercava nell'altro mondo, e che Battista ti offre in questo mondo, il nuovo principio etico generato dagli antichi moralisti e che Lorenzo Valla chiama argutamente la "voluttà". Il concetto ascetico che l'uomo non può conseguire vera felicità in terra, è alieno dal Quattrocento, che non nega e non afferma il cielo e si occupa della terra. Battista non ti dà una filosofia con deduzioni rigorose, non cessa di essere un buon cristiano e riverente alla religione; e non sospetta egli, e non sospettavano i contemporanei, a quali pericolose conseguenze traeva quello indirizzo. Non è il filosofo: è l'artista e il pittore della vita, come gli si porgeva. I suoi ragionamenti non movono da princìpi filosofici, ma dalle sentenze de' moralisti antichi, dagli esempli della storia, e soprattutto dalla sua esperienza della vita. Il suo uomo non è un'astrazione, un'idea formata da concezioni anticipate, ma è preso dal vero nella vita pratica, co' suoi costumi e le sue inclinazioni. Pinge e descrive più che non ragiona; e non è un descrivere letterario o rettorico, ma rapido, evidente, concentrato, come chi ha innanzi agli occhi il modello e n'è vivamente impressionato. Onde riesce pittore di costumi e di scene di famiglia, o campestri o civili, impareggiabile. E non hai già la vuota esteriorità, come spesso è in Lorenzo; ma dentro è il nuovo ideale dell'uomo savio e felice, che par fuori nella calma decorosa e composta de' lineamenti, a cui fa spesso da contrapposto la faccia disordinata dell'uomo sregolato e turbato. È l'onesto borghese idealizzato, che succede al tipo ascetico o cavalleresco del medio evo, un borghese purgato ed emendato, toltagli l'aria beffarda e licenziosa. Di questo ideale immagine parlante è lo stesso Battista, di cui suprema virtù era la pazienza delle ingiurie anche più gravi e de' mali più stringenti della vita: "protervorum impetum patientia frangebat", dice di sè: ottimo rimedio a non guastarsi il sangue. Questa pazienza o uguaglianza dell'animo è la genialità della nuova letteratura, impressa sulla fronte tranquilla del Boccaccio, del Sacchetti, del Poliziano e del nostro Battista e che gl'innamora delle forme terse e riposate, il cui interno equilibrio si manifesta nella bellezza e nella grazia. Questo amore della bella forma, non solo in sè tecnicamente, ma come espressione dell'interna tranquillità, è la musa di Battista. (…) Quest'uomo, che alla vista della bella natura si sente tornar sano, che sta lì a contemplare l'aspetto decoroso di una vecchiezza sana e intera, che chiama divina l'opera elegante dell'ingegno, e sente voluttà a contemplare le belle forme, aggiunge a questa squisita idealità un senso così profondo del reale, che gli rende familiari gli arcani della natura e anche della storia, come mostrò nelle lettere a Paolo Toscanelli, dove predice con molta sagacia parecchi avvenimenti, le future sorti di principi e di pontefici, e i moti delle città. Indi è che nelle sue pitture trovi precisione tecnica, verità di colorito e grande espressione: è una realtà finita ed evidente, che mostra nelle sue forme impressioni e sentimenti. Veggasi nel Governo della famiglia la pittura della vita villica, e la descrizione del convito, e quella maravigliosa scena di famiglia, dove Agnolo, veggendo la sua donna tutta pinta e impomiciata, dice: "Tristo a me! E ove t'imbrattasti così il viso? Forse t'abbattesti a qualche padella in cucina? Laveraiti, chè quest'altri non ti dileggino. – Ella m'intese e lagrimò. Io le die' luogo ch'ella si lavasse le lagrime e il liscio". Dello stesso genere è la pittura de' giocatori nella Cena di famiglia e nella Deiciarchia, e il ritratto nel Teogenio della vita quieta e felice di Genipatro, nel quale intravvedi Battista: "Truovomi ancora per la età riverito, pregiato, riputato; consigliansi meco; odonmi come padre; ricordanmi; lodanmi in suoi ragionamenti; approvano, seguono i miei ammonimenti; e se cosa mi manca, vedomi presso al porto ove io riposi ogni stracchezza della vita, se ella forse a me fusse, qual certo ella non è, grave. Nulla truovo per ancora in vita che mi dispiaccia, e questo mi conosco oggidì più felice che mai, poi che in cosa niuna a me stesso dispiaccio... Godo testè qui ragionando con voi; godo solo leggendo questi libri; godo pensando e commentando queste e simili cose, quali io vi ragiono, e ricordandomi la mia ben trascorsa vita e investigando fra me cose sottili e rare, sono felice. E parmi abitare fra gl'iddii, quando io investigo e ritruovo il sito e forze in noi de' cieli e suoi pianeti. Somma certo felicità viversi senza cura alcuna di queste cose caduche e fragili della fortuna, con l'animo libero da tanta contagione del corpo; e fuggito lo strepito e fastidio della plebe in solitudine, parlarsi con la natura maestra di tante maraviglie, seco disputando della cagione, ragione, modo e ordine di sue perfettissime e ottime opere, riconoscendo e lodando il padre e procreatore di tanti beni." Parti udire Cicerone a discorrere della vecchiezza e dell'amicizia, e delle lettere e dell'uomo felice: senti in questo Teogenio quella superiorità dell'intelligenza sulla forza e sulla fortuna, e della coltura sulla barbarie e la rozzezza plebea; quella beatitudine dell'uomo ritirato nello studio, nella famiglia, ne' campi; quell'ardore delle scoperte, quel culto dell'arte, che è la fisonomia del secolo. Animate da questo spirito sono pure le ultime pagine della Tranquillità dell'animo, ove Battista pinge maravigliosamente se stesso. Nell' Ecatomfilea ti arrestano ritratti di ancora maggior freschezza ed evidenza, com'è la pittura degli amanti troppo giovani o troppo vecchi e dell'amore degli uomini "che fioriscono in età ferma e matura": pittura che ha ispirato le belle ottave dell'Ariosto. De' vagheggini perditempo dice: "Parmi poca prudenzia amare questi oziosi e inerti, i quali per disagio di faccende fanno l'amore suo quasi esercizio e arte, e con sue parrucchine, frastagli, ricamuzzi e livree, segni della loro leggerezza, vagosi e frascheggiosi per tutto discorrono. Fuggiteli, figliuole mie, fuggiteli; però che questi non amano, ma così logorano passeggiando il dì, non seguendo voi, ma fuggendo tedio." La storia dell'amore e della gelosia di Ecatomfila sembra un bel frammento di un romanzo fisiologico perduto, e per finezza e verità di osservazione è molto innanzi alla Fiammetta del Boccaccio, la cui imitazione è visibile nella Ecatomfilea, e più nella Deifira e nella Epistola di un fervente amante: pianti e querele amatorie, dove il buon Battista, uscendo della sua natura, come il Boccaccio, dà nella rettorica. Per trovare il grande scrittore devi cogliere Battista quando pinge o descrive, come nell'epistola sopra l'amore, reminiscenza del Corbaccio, e la pittura delle donne e l'altra dell'amante, pari alle più belle del Corbaccio. E, per finirla, vedi nella Tranquillità dell'animo la descrizione del duomo di Firenze, con tanta idealità nella massima precisione degli accessorii: "... questo tempio ha in sè grazia e maestà, e ... mi diletta ch'io veggo in questo tempio giunta una gracilità vezzosa con una sodezza robusta e piena: tale che da una parte ogni suo membro pare posto ad amenità, e dall'altra parte comprendo che ogni cosa qui è fatta ed offirmata a perpetuità... Qui senti in queste voci il sacrificio e in questi, quali gli antichi chiamavano misteri, una soavità maravigliosa... Ei possono in me questi canti ed inni della Chiesa quello a che fine ei dicono che furon trovati: troppo m'acquietano da ogni altra perturbazione d'animo, e commovuomi a certa non so quale io la chiami lentezza d'animo piena di riverenza verso di Dio. E qual cuore sì bravo si trova che non mansueti se stesso, quando ei sente su bello ascendere e poi discendere quelle intere e vere voci con tanta tenerezza e flessitudine? Affermovi questo, che mai sento in quei misteri e cerimonie funerali invocare da Dio aiuto ... alle nostre miserie umane, che io non lacrimi." Come son vere queste impressioni! E con quanta felicità rese! "Gracilità vezzosa", "lentezza d'animo", sono forme nuove, pregne d'idealità. Il sentimento religioso, cacciato dalla coscienza, si trasforma in sentimento artistico, e move l'animo come architettura e come musica. Pittore egregio, Battista non è del pari felice, quando ragiona, o quando narra. I suoi ragionamenti non sono originali e non profondi, e sembrano uscire più dalla memoria che dall'intelletto; e la sua novella di Lionora de' Bardi, vivace, rapida, rimane una pura esteriorità, lontana assai dal suo modello, il Boccaccio. Volle Battista raggiungere nella prosa quella idealità che il Poliziano poi raggiunse nella poesia. Amendue maneggiano maestrevolmente il dialetto, ma abborrono dal plebeo rozzo e licenzioso, e mirano a dare alla forma un aspetto signorile ed elegante. Come il Poliziano vagheggiò una poesia illustre, così Battista continua la prosa illustre di Dante e del Boccaccio. Patente è su di lui l'influsso che esercita la prosa latina e la maniera del Boccaccio. Ne' suoi trattati e dialoghi trovi prette voci latine, come "bene est", "etiam", "idest", "praesertim"; e parole e costruzioni e giri latini, come "proibire" e "vietare", e participii presenti e infiniti con costruzione latina, e "affirmare", "asseguire", "conditore di leggi" ,"duttore", "valitudine", e moltissimi altri vocaboli simili. Anche nel collocamento delle parole e nell'intreccio del periodo latineggia. Ma non è un barbaro, che ti faccia strane mescolanze; anzi è uno spirito colto ed elegante, che ha nella mente un tipo e cerca di realizzarlo. Mira a un parlare di gentiluomo, se non con latina maestà, certo con gravità elegante ed urbana. E come è un toscano, anzi un fiorentino, la latinità è temperata dalla vivezza e grazia paesana. Se guardiamo a' trecentisti, il congegno del periodo, l'arte de' nessi e de' passaggi, una più stretta concatenazione d'idee, una più intelligente distribuzione degli accessorii, una più salda ossatura ti mostra qui una prosa più virile e uno spirito più coltivato, fatto maturo dalla educazione classica. Pure, se per queste qualità Battista avanza i trecentisti, è inferiore al Boccaccio, e rimane molto al di qua dalla perfezione. La prosa non è nata ancora: ci è una prosa d'arte, dove lo scrittore è più intento alla forma che alle cose, e mira principalmente all'eleganza, alla grazia e alla sonorità. Come arte, i ritratti di Battista sono ciò che la prosa ti dà di più compìto in questo secolo. Ma sono frammenti, e tutti quasi vogliono gli ultimi tocchi, e nessuno si può dir cosa così perfetta come è un quadro del Poliziano. Cosa dunque rimane vivo di Battista? Niuna cosa intera come il Decamerone, fra le trentacinque sue opere. Rimangono di bei frammenti, quadri staccati. Il secolo finisce, e non hai ancora il libro del secolo, quello che lo riassume e lo comprende ne' suoi tratti sostanziali. Se hassi a dir "secolo" un'età sviluppata e compiuta in sè in tutte le sue gradazioni, come un individuo, il primo secolo comprende il Dugento e il Trecento, il cui libro fondamentale è la Commedia, e il secondo secolo comincia col Boccaccio ed ha il suo compimento, la sua sintesi, nel Cinquecento. Il Petrarca è la transizione dall'uno all'altro.
Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana. |