Commissionato a
Leonardo
nel 1495 e concluso due anni dopo,
l’affresco è uno dei capolavori del Rinascimento italiano per la novità
dell’impostazione spaziale, l’immediatezza della rappresentazione degli
stati d’animo dei personaggi e il sostanziale rinnovamento
dell’iconografia tradizionale dell’Ultima Cena. Deterioratosi già a
partire dal Cinquecento, è stato sottoposto a successivi restauri,
l’ultimo dei quali terminato nel 1999.
Al Cenacolo Vinciano si accede da piazza Santa Maria delle Grazie.
Dall’atrio settecentesco, avanzo dei corpi di fabbrica aggiunti per
ospitare gli uffici dell’Inquisizione, si entra a destra nel refettorio,
grande aula rettangolare, con volte a ombrella nei lati estremi,
appartenente alla costruzione di Guiniforte Solari. Sul lato minore di
fondo, in alto, è la celebre Ultima cena di Leonardo da Vinci.
L’artista vi dedicò circa due anni, dopo il 1495, su invito di Ludovico il
Moro, alternando momenti di impegno intenso a lunghe pause: “dal nascente
sole sino all’imbrunita sera soleva non levarsi mai il pennello di mano ma
scordatosi il mangiare e il bere di continuo dipingere. Se ne sarebbe poi
stati due, tre o quattro dì, che non vi avrebbe posto mano, e tuttavia
(...) esaminando tra sè, le sue figure giudicava” (Matteo Bandello). Il
fatto evangelico è rappresentato nel momento drammatico in cui Cristo
annuncia che uno dei suoi lo tradirà. La
scena è illuminata da una luce obliqua che attraversa la mensa cogliendo
la parete destra e che riappare nel paesaggio intravisto attraverso le tre
porte del fondo; al centro, isolata, è la figura di Cristo, intorno si
agitano gli apostoli, aggruppati a tre a tre, in un vario gestire che
caratterizza in ognuno l’emozione prodotta dall’annuncio del maestro. “Uno
che beveva – è Leonardo stesso che nel “codice Forster” commenta l’opera –
lascia la zaina nel suo sito e volge la testa verso il proponitore. Un
altro tesse le dita delle mani insieme volgendo accigliato verso il
compagno; l’altro con le mani aperte mostra le palme di quelle, e alza la
spalla inverso le orecchie, e fa la bocca della meraviglia. Un altro parla
nell’orecchio dell’altro, e quello che l’ascolta si torce inverso lui e
gli porge gli orecchi tenendo un coltello nell’una mano e nell’altra il
pane, mezzo diviso. L’altro nel voltarsi, tenendo un coltello in mano,
versa con tal mano una zaina sopra la tavola, l’altro posa le mani sopra
della tavola e guarda, l’altro soffia nel boccone, l’altro si china per
vedere il proponitore infra il muro e il chinato. “Si notino nel dipinto
anche i rapporti prospettici che tendono a prolungare l’ambiente reale in
quello figurato; lo spazio fra la mensa e la parete di fondo è identico a
quello reale di metà refettorio.
Il dipinto nel corso dei secoli è andato deperendo: già nel 1518 si
segnalarono i primi guasti; in seguito, Paolo Giovio e Gregorio Armenini,
che lo vide attorno al 1547, parlarono della rovina della pittura; a fine
’500 Paolo Moriggia lo disse ormai “in gran parte perduto”. Le ragioni
sono diverse, una delle quali si fa risalire a Leonardo stesso, che,
intenzionato a sperimentare nuove tecniche, dipinse a tempera forte su due
strati di gesso (ma vi è stata individuata anche la presenza di miscele di
vernice e acquaragia, colla di pesce e resina) e non a olio come si
sarebbe supposto, rendendo così ammissibili anche le lunghe pause
nell’esecuzione, improponibili in una pittura a fresco. Al principio del
’600 il cardinale Federico Borromeo, dopo averne cautelativamente ordinata
una copia al Vespino, perché rimanessero ai posteri le “reliquiae
fugientes” dell’opera (oggi alla Pinacoteca ambrosiana), si consultò con
persone dell’arte per salvare il dipinto; Francesco Scannelli, che lo vide
nel 1640, diede indicazioni precise del suo avanzato deperimento e questo
spiega forse perché i Domenicani non si peritassero di ampliare la
porticina sotto la figura del Gesù, tagliando le gambe di questo e di due
discepoli. Nel 1726 si ebbe il primo tentativo di restauro, dovuto a
Michelangelo Bellotti, che “a punta di pennello toccava quei luoghi ove i
colori erano affatto scaduti”; nel 1770 si ripulì con olio l’intera
parete; nel 1796 Napoleone Bonaparte ordinò che il refettorio non fosse
adibito ad alcun uso militare, ma più tardi il locale servì da quartiere e
da stalla e nel 1801 fu invaso in parte dall’acqua. L’“Ode per la morte di
un capolavoro”, scritta da Gabriele D’Annunzio nel 1901, fu all’origine
dei restauri del 1908 (forse il primo condotto con metodo scientifico) e
del 1924. Scampata alle distruzioni del 1943, l’opera ebbe una radicale
pulitura nel 1953. Dopo gli interventi di salvaguardia e controllo del
microclima d’ambiente (1969), il dipinto è stato nuovamente in restauro
dal 1977 al 1999, nel tentativo di asportare altri strati di materiale
sovrapposti nei secoli. Le parti rivelano ora una lettura continua – per
quanto un po’ lacunosa – con colori brillanti di tono chiaro; sono stati
messi in evidenza la vegetazione delle lunette (interessanti per
approfondire gli studi botanici di Leonardo), un nuovo profilo di Simone
(simile a un disegno delle raccolte reali inglesi di Windsor), la natura
morta sulla mensa, i tessuti da parati e i ganci che li sostengono.
"Cenacolo Vinciano"Microsoft®
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