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La stagione del gotico milanese corrisponde, cronologicamente, con la signoria dei Visconti: già alla fine del Duecento l’arcivescovo Ottone, fondatore della dinastia, avviò la trasformazione gotica del Palazzo Arcivescovile, cui seguirono analoghi interventi sul Broletto Vecchio – che nella prima metà del Trecento venne affrescato da Giotto – e nella cappella ducale di San Gottardo. Momento fondamentale di questo periodo – caratterizzato anche da una straordinaria fioritura della scultura, dell’oreficeria e della miniatura – fu l’apertura del cantiere del Duomo nel 1386, nel quale si confronterà per secoli, fino al Seicento, il meglio della cultura artistica milanese. La vicenda storica del gotico milanese è ripercorsa nel brano della Guida Rossa del Touring Club Italiano dedicata al capoluogo lombardo.
Se confrontiamo le due fondamentali antiche cronache milanesi, quella del frate Bonvesin de la Riva del 1288 e quella di Galvano Fiamma a partire dal 1330, possiamo cogliere l’evoluzione da tempi ancora memori del libero Comune – basato sulla “concordia” civica, orgoglioso in senso collettivo della sua veste monumentale laica e religiosa, romanica e protogotica, e delle sue ricchezze economiche – all’instaurato dominio signorile visconteo di Azzone, già circonfuso di quell’opulenza, di quel “lusso” gotico che caratterizzerà per un secolo e mezzo il ducato. Già con i successori di Azzone, gli zii Luchino e arcivescovo Giovanni, Milano è al centro di una signoria estesa da Bellinzona a Genova e Sarzana, da Vercelli a Brescia a Reggio Emilia, comprendente anche Bologna. Corrispettivo culturale di questa formazione di uno stato lombardo è la chiamata, da parte dello stesso Azzone, di Giotto e Giovanni di Balduccio da Pisa, così come l’arcivescovo Giovanni chiama nel 1353 il Petrarca, che “ornerà” la corte, a Milano e Pavia, dei due nipoti di Giovanni, Galeazzo II e Bernabò (come anche, per breve tempo, il Boccaccio). In arte e cultura gotica “nazionale” Milano signorile rivaleggia con la borghese Firenze e con i fasti scaligeri di Verona, cui Bernabò si lega attraverso il matrimonio con Beatrice, detta Regina, figlia di Mastino II della Scala. Il fondatore della signoria, l’arcivescovo Ottone, vinti nel 1277 i rivali Torriani, aveva subito intrapreso la trasformazione gotica del Palazzo Arcivescovile, poi conclusa da Giovanni (ne rimangono alcuni finestroni e qualche ambiente interno, dove furono ritrovati e staccati i frammenti di affresco di un seguace “di fronda” di Giotto). In perfetta coerenza il nipote Matteo I, che l’arcivescovo aveva fatto nominare nel 1287 capitano del popolo, iniziò la trasformazione gotica del Broletto Vecchio in palazzo signorile, proseguita poi da Azzone e da Galeazzo II; i restauri e le demolizioni novecentesche della ricostruzione neoclassica (Piermarini, dal 1791) ne hanno rimesso in luce le grandi bifore esterne e alcune arcate archiacute in un cortile interno. È qui da ricordare ancora una volta questa singolare, esasperata vocazione milanese a trasformare di volta in volta, di dominio in dominio, il volto monumentale della città più attraverso il rifacimento che non attraverso creazioni nuove. Risale anche a Matteo il primo intervento del nuovo stile nel complesso di piazza dei Mercanti, con la costruzione nel 1316 della Loggia degli Osii. Il “lusso” gotico trionfa con Azzone, quarto signore nel 1329-39. È sufficiente leggere in Galvano Fiamma (purtroppo senza alcun riscontro superstite) le descrizioni del ricostruito palazzo signorile, con gli affreschi di Giotto, i verzieri, i serragli, e della chiesa-cappella – San Gottardo – con l’interno azzurro e oro, le “cortine” dell’altare maggiore in metallo e gioielli, il coro e i pulpiti in avorio, le acquasantiere in porfido e argento. San Gottardo fu rifatta su una precedente chiesa intorno al 1330-36, in forme che sono state supposte fiorentine arnolfiane, attraverso la presenza di Giotto. Ne rimane intatta la superba torre-campanile ottagonale, mentre è stato staccato e portato all’interno della chiesa (1953), quando ormai era svanito, l’affresco della Crocifissione di altro ignoto giottesco. Le presenze direttamente giottesche al seguito del maestro (le cui opere sono del tutto perdute) si allargano ai grandi complessi abbaziali nel territorio, con il maestro della Madonna col Bambino e santi datata 1349 nel tiburio di Viboldone, mentre più complessa – fra giottismo fiorentino, arte senese e pisana, e nascente cultura locale – appare la forma pittorica, di più mani, della Gloria della Vergine e delle storie della Vergine nel tiburio di Chiaravalle. Il punto culminante è rappresentato, nello stesso tiburio di Viboldone, dal Giudizio Finale attribuito a Giusto de’ Menabuoi. Giovanni di Balduccio è l’altro grande “importato” da Azzone Visconti. L’erede della scuola scultorea pisana di Giovanni, Arnolfo di Cambio e Tino di Camaino impone a Milano lo stesso modello scultoreo-architettonico delle tombe pontificie di Arnolfo e di quelle napoletane angioine di Tino, in ulteriore scambio di culture signorili. Assume valore di simbolico omaggio al rapporto fra patrono e artista il fatto che il successore di Azzone, l’arcivescovo Giovanni, commetta all’artista (ed è l’ultima sua opera a Milano) la tomba di Azzone stesso in Sant’Eustorgio, oggi induttivamente ricomposta nel medesimo luogo, dopo un secolare passaggio nelle mani dei Trivulzio. Scomparsa la tomba della madre di Azzone, Beatrice, in San Francesco Grande, la più significativa commissione del quarto signore di Milano a Giovanni di Balduccio e ai suoi aiutanti, fra cui indubbiamente dei campionesi, è costituita dai gruppi di statue della Madonna e santi patroni in tabernacoli al sommo delle porte urbiche, rafforzate assieme alle mura: in loco quelli di porta Ticinese e degli archi di porta Nuova; nei Musei del Castello Sforzesco quello di porta Orientale – fra le attuali vie Senato e San Damiano, abbattuta nel primo Ottocento – e parte di quello di porta Comasina, fra via Tivoli e via Pontaccio, già inglobata nell’ampliamento cinquecentesco spagnolo delle fortificazioni del Castello. Il capolavoro di Giovanni di Balduccio, l’arca di San Pietro martire in Sant’Eustorgio, firmata e datata 1339, nasce invece da una commissione del potente ordine domenicano, desideroso di erigere a Milano un monumento degno dell’arca del santo fondatore nella sua chiesa di Bologna, la città che di lì a poco sarebbe stata comprata a peso d’oro dall’arcivescovo Giovanni Visconti. Bonino da Campione è il nuovo astro della scultura milanese, nonché il preferito da Bernabò e Galeazzo II Visconti con le loro brillanti e colte mogli (Regina della Scala e Bianca di Savoia). Lo dimostra, sempre in Sant’Eustorgio, la tomba del padre e della madre dei nuovi signori, Stefano e Valentina Doria. Ciò che era stata San Gottardo per Azzone diviene San Giovanni in Conca per Bernabò: con gesto di eccezionale egotismo, nella chiesa egli fa erigere da Bonino, intorno al 1363, la propria statua equestre, rivaleggiante con i monumenti scaligeri di Verona, ma contrapponente al loro goticismo venato di Estremo Oriente una severità lombarda neoromanica, completata un ventennio dopo dal sarcofago della scuola di Bonino; e della stessa scuola, nella stessa chiesa, era anche l’arca funebre della moglie Regina della Scala, morta nel 1384, un anno prima di Bernabò, deposto dal nipote Gian Galeazzo. Entrambi i monumenti sono ora nei Musei del Castello. A Regina della Scala Milano fu debitrice dello splendore gotico di Santa Maria della Scala, abbattuta nel Settecento per far posto al teatro. Il fratello di Bernabò, Galeazzo II, è soprattutto grande costruttore – e ricostruttore – di chiese, palazzi e fortezze. Riforma ancora una volta il palazzo signorile, destinato nel 1395, con il figlio Gian Galeazzo, a divenire “Corte ducale”; dà una nuova facciata a Santa Maria Maggiore (ultima a cadere nel Seicento per i lavori del nuovo Duomo), chiamandovi a lavorare, secondo una recente ipotesi, i veneziani fratelli Dalle Masegne; soprattutto fonda il Castello di porta Giovia, ultimo decisivo passo per una struttura urbana che sarà valida fino al Settecento. Riconquistata Pavia (ribellatasi con i Beccaria), gli interessi di Galeazzo II e di Bianca di Savoia si volsero però principalmente a questa città, già centro delle glorie longobarde, creandovi la stupenda Biblioteca cui fu legata – già con lui, poi con il figlio Gian Galeazzo e con il nipote Filippo Maria – la splendida fioritura della miniatura tardogotica lombarda, aperta alla cultura internazionale cortese dalla Boemia alla Borgogna. L’ulteriore raffinatezza del gotico cortese caratterizza infatti la cultura di Gian Galeazzo, che divide la signoria con lo zio Bernabò dal 1378, lo depone nel 1385 e muore nel 1402. Il “suo” artista – fra i più alti del gotico internazionale – è il miniatore, disegnatore, scultore e architetto Giovannino de’ Grassi; il continuatore ed erede di questi, Michelino da Besozzo, minierà in morte di Gian Galeazzo il suo “Elogio funebre”, finito a Parigi (oggi alla Biblioteca nazionale) come tanti altri codici pavesi saccheggiati da Luigi XII di Francia nel 1512. Giovannino de’ Grassi fa parte del nutrito gruppo di architetti e lapicidi italiani (soprattutto comacino-campionesi e veneziani), tedeschi, francesi chiamati da Gian Galeazzo e dall’arcivescovo Antonio da Saluzzo, a partire dal 1386, per il colossale cantiere del nuovo Duomo, che letteralmente assorbirà per secoli, fino al Seicento, il meglio dell’arte milanese. L’originaria impostazione tardogotica, di gusto renano-boemo, sostanzialmente unica in Italia, è anch’essa tipicamente internazionale: ne è esempio la parte absidale, con l’enorme finestrone terminale, recante nella rosa la “razza”, stemma di Gian Galeazzo, e ai lati l’Annunciazione. Nella prima metà del Quattrocento, sotto Filippo Maria Visconti, il successore di Gian Galeazzo, scultori renani, borgognoni e italiani – Jacopino da Tradate (autore all’interno della statua di papa Martino V, che consacrò l’altare maggiore nel 1418), Matteo Raverti (che finirà a Venezia, autore della Ca d’Oro) – popolano di infinite statue finestroni, contrafforti, doccioni all’esterno, capitelli all’interno; nascono anche le prime vetrate, molte delle quali sconvolte a metà Ottocento dai rifacimenti bertiniani. La nascita del Duomo è solo il più colossale esempio del gusto e della cultura di Gian Galeazzo; all’estremo dimensionale opposto, esso è documentato dalla chiesetta doppia di San Cristoforo, al bordo di uno di quei navigli extramurani, il ticinese, che sono diventati la linfa vitale, il cordone ombelicale di raccordo fra capitale e ducato, e lungo cui navigano i marmi da Candoglia sul Lago Maggiore al “Laghetto”, alle spalle del cantiere del Duomo. Altri esempi di raffinatezza internazionale, di squisitezza materica, sono il dossale dell’altar maggiore di Sant’Eustorgio, opera campionese su schemi e iconografie transalpine, e il “Calice”, capolavoro di oreficeria tardogotica, donato da Gian Galeazzo al Duomo di Monza. Questo sforzo raggiunge vertici di lussuosità – già vicina all’esaurimento – con l’ultimo duca visconteo, Filippo Maria, la cui figlia Bianca Maria sposerà nel 1450 Francesco I Sforza; lo stesso spirito accomuna la “Pace” in argento dorato donata dal duca a Sant’Ambrogio (oggi nel piccolo museo della basilica), i mazzi di “Tarocchi” punzonati d’oro, per cui opera uno degli ultimi tardogotici, il cremonese Bonifacio Bembo, gli affreschi degli Zavattari nella cappella della regina Teodolinda del Duomo di Monza. Accanto alla casa ducale, ascendono le fortune della famiglia dei Borromei, che tanta parte avrà nella storia e nella cultura milanesi, nella loro casa del primo Quattrocento davanti a Santa Maria Podone, semidistrutta nel 1943; se ne salvarono in parte, staccati, gli affreschi con scene di Giochi cortesi. Attivo nel 1451 in casa Borromeo risulta un altro estremo gotico, Cristoforo Moretti, cremonese come il Bembo, autore del trittico già nella cappella di Sant’Aquilino a San Lorenzo e oggi al Museo Poldi Pezzoli.
Guida d’Italia. Milano, Touring Club Italiano, Milano1998. |