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Alla metà del Cinquecento la Francia visse una fase assai turbolenta della sua storia, che ebbe il suo culmine la notte di san Bartolomeo, tra il 23 e il 24 agosto del 1572. Fanatismo religioso, vendette private e ambizioni di potere avevano fermentato a lungo, accendendo di odio entrambe le parti del conflitto, prima di esplodere nel massacro di migliaia di ugonotti perpetrato dai cattolici: è l’intrico sanguinoso di cui lo storico inglese Herbert Fisher (Londra 1865-1940) traccia un quadro in questo capitolo della sua Storia d’Europa.
Le guerre di religione della seconda metà del sedicesimo secolo furono per la Francia assai più disastrose che non le campagne d’Italia che le avevano precedute. La politica che aveva ispirato queste ultime era stata poco saggia, ostacolando, tra l’altro, l’opera di esplorazione dei marinai bretoni e normanni nel Nuovo Mondo e dissipando vite e ricchezze senza che le ambizioni francesi fossero minimamente soddisfatte. Ma le guerre di religione minacciarono addirittura di spezzare l’unità della Francia, conquistata già con tanta fatica, provocando mali ben superiori alle perdite subite in battaglia. Si combatteva tra città e città, tra villaggio e villaggio, tra famiglia e famiglia: assalti armati e assassinii erano incidenti quotidiani. Si commettevano delitti per fanatismo religioso, a soddisfazione di vendette private, o anche, come accade in tutte le epoche in cui la peste dello spionaggio infetta la compagine politica, per insensato terrore. La moralità del santo ugonotto era impegnata in una lotta condotta in larga parte coi metodi degli sparatori irlandesi. I savi francesi umanisti si tenevano in disparte, come Montaigne, nei cui Saggi, pubblicati durante la selvaggia tirannide della lega cattolica, troviamo un evangelo di epicureismo illuminato e di caritatevole scetticismo. Ecco, a grandi linee, la situazione francese alla morte di Enrico II, nel 1559: la propaganda ginevrina o ugonotta aveva fatto grandi progressi, trovando fautori nell’esercito e nel parlamento di Parigi, assicurandosi in molte città del contado un numeroso seguito di devoti aderenti. Diverse persecuzioni non erano riuscite a soffocare il movimento. Benché la morte sul rogo fosse il premio dell’eresia e, sotto il regno di Enrico II, ottantotto umili protestanti la subissero, la nuova fede continuava a creare proseliti. Piccole Bibbie e libri di salmi francesi circolavano clandestinamente ed erano letti nel segreto delle riunioni familiari. Maestri, preparati alla scuola vivificatrice di Ginevra, viaggiavano ovunque incoraggiando all’eroismo e alla resistenza. Né gli ugonotti francesi ignoravano il destino dei loro correligionari in altri paesi: sapevano che le donne protestanti erano bruciate vive nei Paesi Bassi, che in Inghilterra la regina Maria mandava al rogo anche gli arcivescovi, che Giovanni Knox aveva innalzato tra gli scozzesi la bandiera di Ginevra. Le congregazioni dei fedeli erano unite in una confraternita di martirio. Un gruppo di eretici, ancora imperfettamente organizzato ma ansioso e ardente, e reso più forte dal senso della solidarietà con le comunità protestanti dagli altri paesi, si opponeva al debole e squattrinato governo francese. Contro questa incombente minaccia all’antica fede si schieravano l’antica tradizione cattolica della monarchia francese, la forza disciplinata della chiesa romana, le furie superstiziose del popolino di Parigi e sempre, nello sfondo, la potenza della Spagna, grande sul mare, dominatrice in Italia e nei Paesi Bassi, e legata alla casa d’Austria da intimi rapporti familiari. Se, in circostanze simili, si fosse trovato sul trono francese un re vigoroso, saggio e tollerante, che sapesse e volesse giovarsi del forte sentimento favorevole all’indipendenza gallicana prevalente in tanti prelati della chiesa francese, e disposto, come Enrico VIII, a essere unico indiscusso padrone in casa propria, una lunga serie di guai sarebbe stata forse risparmiata al paese. Ma in questo momento critico il governo della Francia toccò successivamente a tre dei più deboli sovrani che mai salissero su un trono europeo. Dei figli di Enrico II e Caterina de’ Medici, il maggiore, Francesco II, fu un malato cronico; il secondo, Carlo IX, una vittima del proprio sistema nervoso, se non addirittura un pazzo; il terzo, Enrico III, un degenerato. Chi governava realmente era la madre, cui nuoceva il doppio fatto d’essere donna e straniera. La posizione di questa colta e cinica dama italiana della classe media, improvvisamente chiamata a governare la Francia tra le feroci rivalità che straziavano la corte e il paese, era singolarmente difficile. Una politica di audacia, quale avrebbe potuto affascinare un re indigeno, era inattuabile da una straniera; una politica di entusiasmo tale da conquistare la cordiale adesione di cattolici e ugonotti era contraria al suo temperamento indifferente e fondamentalmente laico. Circondata da ogni genere d’insidie, e in una situazione che esigeva la massima vigilanza, ella decise di conservare l’apparenza della monarchia per i suoi figli e la sostanza del potere per sé, col metodo che più le pareva adatto a tal fine, e cioè una pace religiosa fondata sul compromesso. La sua figura morale suscitò i più opposti giudizi. A uno storico ella appare "particolarmente notevole per il suo affetto materno". Per altri ella è la suprema incarnazione dell’abilità e malvagità umana. Forse, tra i suoi critici meno caritatevoli, il più vicino al segno fu il suo figliolo minore, nel definire la madre col nome di Madame la Serpente. Sprezzante della verità, ghiottona, inesorabile e spregiudicata nelle vendette private, era una vera italiana del suo tempo: sua grande virtù politica la fredda tenacia con cui lottò per raggiungere un equilibrio pacifico tra due partiti fanatici. Ma benché la tolleranza s’accordasse col suo spirito e col suo carattere, non fu mai per lei un ferreo principio. E a un certo punto questa donna grassa, amabile, attiva, di gusto artistico raffinato e genuino, amante di quadri, di gioielli e di buoni libri, che mai perdonava o dimenticava una offesa, e che, prima tra i governanti francesi, organizzò l’immoralità come strumento di potenza, abbandonò la sua politica d’indulgenza e collaborò alla preparazione del massacro di San Bartolomeo. Più importanti della regina italiana e dei suoi sciagurati figli, erano certi grandi gruppi aristocratici che, ambiziosamente, tendevano a dominare il re e in conseguenza il governo. Uno di questi gruppi era decisamente cattolico e l’altro decisamente protestante, mentre il terzo rappresentava una posizione intermedia, opponendosi ai capi cattolici nella politica e ai protestanti nella fede religiosa. Il gruppo cattolico era il partito dei Guisa, di cui erano a capo Francesco, duca di Guisa, idoleggiato dalla Francia per la sua difesa di Metz e la presa di Calais e, dal lato ecclesiastico, suo fratello Carlo di Lorena, cardinale arcivescovo di Reims, che ben volentieri si sarebbe acconciato a essere il primo patriaca di una chiesa gallicana indipendente, ma che, vista impossibile la cosa, fu, al concilio di Trento, l’avvocato più abile e più violento delle supreme pretese papali. Il partito dei Guisa poteva vantare perciò il primo soldato e il principale ecclesiastico del regno; né a ciò si limitava la sua potenza: una sorella di Francesco di Guisa aveva sposato il re di Scozia; una sua nipote sedeva sul trono di Francia. Questi intimi legami con due teste coronate, quindici vescovati nella famiglia, e grandi proprietà lungo la frontiera orientale del regno, facevano dei Guisa i rappresentanti del potente gruppo d’interessi cattolici del paese. La Spagna, e Roma, con le quali erano legati, contavano soprattutto su questa potente famiglia per la difesa del cattolicesimo in Francia. Capi del partito ugonotto erano invece i prìncipi di Borbone, Antonio, re di Navarra, e suo fratello Luigi duca di Condé, governatore della Piccardia e Protettore Generale della chiesa di Francia. Non si può certo sostenere che questi due grandi nobili fossero profondamente credenti nella fede ugonotta; ma la loro potenza nell’ovest e nel sud-ovest della Francia, come pure in Normandia, era considerevole e attirò nel conflitto gran parte dei piccoli nobili e dei gentiluomini di campagna di queste regioni. Un terzo gruppo, guidato originariamente dal veterano statista Anne, duca di Montmorency, e forte specialmente nella Francia centrale, era formato dai Politici, uomini che, sebbene aderissero all’antica fede, amando poco la regina madre e i Guisa, avevano assunto una posizione intermedia tra i gruppi estremi. Il Montmorency era decisamente cattolico, ma i suoi tre nipoti, i fratelli Chatillon, seguirono una linea diversa, unendosi agli ugonotti, e uno di essi, Gaspard di Coligny, ammiraglio di Francia, uomo di coraggio indomabile e di profonde convinzioni religiose, divenne il primo generale protestante e perciò principale bersaglio della vendetta cattolica. Nell’appassionato fermento dell’epoca, i più futili incidenti potevano provocare la guerra. L’esecuzione in Parigi di un avvocato calvinista provocò nel sottosuolo protestante, probabilmente non senza un certo incoraggiamento da parte del Condé e forse anche di Elisabetta d’Inghilterra, una congiura per impadronirsi del re e dei Guisa ad Amboise. La congiura fu scoperta, i cospiratori crudelmente puniti, e i Guisa, sentendosi sempre più forti, osarono addirittura arrestare il Condé e condannarlo a morte. Ma la fortuna mutò bruscamente. Il 5 dicembre 1560 moriva il giovane re. Prima al culmine della fortuna, i Guisa si trovarono ora privi di ogni efficacia a corte, mentre i loro nemici prendevano il loro posto. La regina madre divenne reggente per suo figlio Carlo, minorenne, e con l’aiuto del cancelliere l’Hopital, uno dei pochi grandi statisti dell’epoca, iniziò una politica di amnistia e conciliazione. Il Condé fu liberato, i calvinisti amnistiati, e il re di Navarra ammesso al Consiglio come luogotenente generale del regno. Caterina e il suo saggio consigliere tentarono ora un esperimento che, se l’opinione pubblica fosse stata un po’ meno accesa, avrebbe potuto porre le basi di una pace provvisoria. Dopo la brusca interruzione di un colloquio tra i principali teologi delle chiese rivali, invariabile conclusione di simili dibattiti, fu pubblicato, nel gennaio del 1562, un editto che legalizzava, con condizioni discrete, la pubblica celebrazione dei riti ugonotti. Ma l’opinione pubblica era ormai troppo tesa. Si distrussero immagini, si abbatterono chiese, si attaccarono da una parte i preti, dall’altra i predicatori; e finalmente, quando un gruppo di ugonotti celebranti il loro culto fu massacrato a Vassy dalle truppe dei Guisa, la guerra civile, da tanto tempo tenuta in freno, scoppiò improvvisamente. Caratteristica di tale contesa fu non soltanto il fatto che suoi strumenti fossero in gran parte mercenari stranieri, ma anche che, dopo ogni breve periodo di lotta, si conchiudesse la pace non in seguito a un accordo tollerante di entrambi i partiti, ma o per mancanza di denaro o per l’uccisione di un capo o per improvviso scoraggiamento e debolezza, o perché, nonostante i fieri rancori religiosi e personali dell’epoca, esisteva ancora come sostrato, il senso di un’unità francese, tesoro da non sperperarsi leggermente. A tali ragioni deve attribuirsi il fatto che sette guerre fossero necessarie prima che si placasse in Francia la contesa tra cattolici e ugonotti. Entrambi i partiti non si fecero scrupolo di ricorrere all’aiuto straniero. I cattolici si rivolsero alla Spagna, gli ugonotti all’Inghilterra, giungendo al punto, durante la prima guerra, di dare agl’Inglesi il possesso di Le Havre e di prometter loro Calais. Ma un’alleanza protestante non fu mai raggiunta. L’abisso tra luterani tedeschi e ugonotti francesi rimase incolmabile. E i luterani tedeschi che combatterono nelle guerre francesi si trovavano in massima parte non nelle file degli ugonotti, ma dei cattolici. Durante la prima guerra tutto pareva presagire un trionfo cattolico: l’appoggio del re e della regina, l’aiuto di Parigi, la collaborazione di un potente gruppo di mercenari spagnoli e tedeschi, la presa di Rouen, e finalmente una vittoria cattolica a Dreux nella Normandia sulle truppe del Coligny e del Condé. Ma tutti i vantaggi scomparvero di colpo quando Francesco di Guisa cadde, per mano di un assassino, dinanzi alle mura di Orléans. Poco tuttavia giovò agli ugonotti tale assassinio, ché il delitto, attribuito al Coligny, fornì alla famiglia dell’ucciso un motivo di vendetta assai più forte delle convinzioni religiose. Nei quattro anni di pace inquieta che seguirono, Caterina e i suoi figli fecero il giro delle provincie. Un incontro a Baiona (maggio del 1565) tra Caterina e sua figlia, la regina Isabella di Spagna, accompagnata dal duca d’Alba, insospettì il partito degli ugonotti. Certo Caterina tendeva anzitutto a combinare un matrimonio tra l’altra sua figlia Margherita e Don Carlos, figlio di Filippo II di Spagna; ma si discussero anche argomenti diversi, e soprattutto l’alleanza della Francia e della Spagna contro i Paesi Bassi. Ciò era più che sufficiente a risvegliare le paure del Coligny, lo spirito più attivo del partito degli ugonotti; e quando si vide Alba marciare verso i Paesi Bassi lungo la frontiera orientale della Francia con un forte esercito spagnolo accompagnato da un corpo di osservazione francese, l’ammiraglio sentì ch’era giunto il momento di liberare la corte dalle reti spagnole. Ma il tentativo di far prigioniero Carlo IX provocò, fallendo, un nuovo scoppio di ostilità. Le due guerre seguenti che, divise soltanto dalla breve pace di Longjumeau, nel 1568, posson quasi essere considerate come un solo seguito di operazioni, sono memorabili per tre ragioni: la Rochelle s’impose per la prima volta come grande fortezza protestante sul mare, capace di sostenere vittoriosamente un assedio; ed Enrico di Navarra, figlio del re Antonio, destinato a diventare più tardi re Enrico IV di Francia, si rivelò come capo protestante. Ma la più straordinaria circostanza di questo periodo fu la vittoria finale del Coligny, seguita a una serie quasi ininterrotta di vittorie cattoliche, dopo che il Condé era stato preso e ucciso a Jarnac e circa 6.000 ugonotti eran caduti sul campo sanguinoso di Moncontour. Con una brillante ritirata dalla Loira al sud e radunando un nuovo esercito, lo straordinario veterano marciò su Parigi e, trovando la corte indifesa, confuse i nemici, s’impose al re e assunse la direzione della politica francese. Carlo IX, allevato da una nutrice protestante, era disposto a venire a patti. E la pace di St. Germain (agosto 1570) riconobbe più ampiamente di quanto non fosse stato fatto prima d’allora, l’importanza del partito degli ugonotti come rappresentante di sostanziali e distinti interessi in Francia. Si permise come prima ai grandi nobili di tenere nei loro castelli le funzioni ugonotte per quanti desiderassero assistervi. Il culto protestante fu mantenuto in tutte le città in cui già era praticato e in due città per ogni distretto amministrativo della Francia. Si crearono difese contro l’oppressione giudiziaria. Quattro cittadelle di grande importanza militare, La Rochelle, Montauban, Cognac, e la Charité, furono garantite al partito per due anni, come pegno dell’adempimento del trattato. Ecco aprirsi così agli ugonotti una nuova prospettiva. Finora, soprattutto per la pressione dei Guisa, la monarchia francese s’era sempre rivolta alla Spagna come a possibile alleata nella difesa della causa cattolica. Il Coligny preparò una completa rivoluzione diplomatica, cercando di rafforzare i suoi correligionari di Francia col suscitare nei Paesi Bassi una guerra nazionale contro la Spagna. A tale scopo lavorò a una grande confederazione che, diretta dalla Francia, ma aiutata dall’Inghilterra, dall’Olanda, da Venezia e dalla Toscana, e possibilmente anche dai turchi, imponesse la pace all’interno e aggiungesse le Fiandre e l’Artois ai dominii della corona francese. Un trattato di alleanza difensiva con l’Inghilterra, firmato a Blois il 19 aprile 1572, fu la prima pietra posta a base del nuovo edificio diplomatico. Tra le varie imprese di questo periodo di supremazia ugonotta, una era destinata a influire enormemente sulla situazione interna francese: il matrimonio tra Margherita di Valois, sorella del re, ed Enrico di Navarra (18 agosto 1572). Il bearnese, piccolo uomo rozzo dal naso a uncino, figlio di un cavaliere dei Pirenei e di un’ugonotta fanatica, fu scovato nella sua remota provincia e introdotto, col matrimonio, nella famiglia reale e cattolica di Francia. Fu un matrimonio misto, il primo del genere, cordialmente detestato da tutti i buoni cattolici. Dove, ci si chiedeva, sarebbe andata a finire la Francia col suo re scervellato e il suo generale ugonotto? Mirava forse a una guerra colla massima potenza cattolica europea? A una politica intesa a porre la Francia sotto un re protestante? Caterina intuiva rapidamente i cambiamenti d’umore del paese; sapeva che, se anche un terzo della nobiltà era di fede ugonotta, la gran maggioranza del popolo francese rimaneva tuttavia fedele all’antica dottrina. Temeva la guerra, temeva la potenza della Spagna, temeva l’efficacia del Coligny su suo figlio, temeva, rimanendo inattiva, che i Guisa si muovessero, impadronendosi della Francia, ed era troppo intelligente per illudersi che una guerra mossa con l’intento di conquistare alla Francia un pollice del territorio delle Fiandre, potesse essere ben vista dal governo inglese. Decise perciò di far uccidere il Coligny. Ma il tentativo fallì: l’ammiraglio fu ferito da uno scherano cattolico ma non gravemente (22 agosto 1572), e la posizione della regina madre divenne critica. Parigi era piena di gentiluomini ugonotti, attirati alla capitale dal matrimonio principesco e furiosi per il subdolo attentato al loro grande e venerato capo. Per timore di peggio, la regina decise di colpire di nuovo, e non il Coligny soltanto questa volta, ma tutti i capi protestanti, nel segreto della notte. Il debole re, ingannato con la storiella di una congiura di ugonotti, fu facilmente convinto a dare il proprio consenso. I Guisa erano ansiosi di vendetta e, dietro i Guisa e i loro bravi, si celavano le furie dormenti della cattolica Parigi. All’alba del 24 agosto (giorno di san Bartolomeo), le campane del palazzo di giustizia diedero il segnale del massacro. L’orgia di carneficina che seguì, non in Parigi soltanto, dove furono uccisi circa tre o quattro mila ugonotti, ma in tutte le provincie, superò le più feroci speranze della corte. Non fu necessario incoraggiamento alcuno per convincere i parigini, al cui commercio assai nuocevano le discordie religiose, a massacrare gli ugonotti e mutilarne i cadaveri. Non solamente i capi furono uccisi, ma anche i seguaci e i gregari, e l’esempio fu allegramente seguito nelle provincie. La testa del Coligny fu mandata al papa, che rispose col dono della rosa aurea al re: anzi, alla notizia del felice sterminio di tanti eretici, il pontefice fece coniare una medaglia e Filippo di Spagna ordinò un Te Deum. Mai si era sognato un simile trionfo cattolico. Il Coligny era morto, il Condé ed Enrico di Navarra si trovavano nelle mani del re, e migliaia di cadaveri di ugonotti stavano a dimostrare la forza dell’ortodossia cattolica della Francia. I cospiratori che prepararono il massacro di San Bartolomeo agirono certo in un momento di panico, ma il timore che un re troppo compromesso con gli ugonotti potesse essere rovesciato da un partito di cattolici fanatici, guidato dai Guisa e rafforzato dalla plebe di Parigi, non era certo infondato; e sotto Enrico III, successo nel 1574 a suo fratello, tale pericolo per poco non divenne realtà. Anziché distruggere gli ugonotti, il massacro di San Bartolomeo era stato il primo atto di una quarta guerra. Dalla loro capitale occidentale di La Rochelle, gli ugonotti, ora aiutati da molti Politici, cui si unì per un certo tempo lo stesso Monsieur, fratello minore del re, sfidavano la potenza dei realisti e rappresentavano un pericolo per l’unità della Francia. Ai Cattolici, e più particolarmente ai cattolici democratici di Parigi, questa ostinazione fiera e tenace, così dannosa agli affari, così antipatriottica (poiché gli ugonotti agivano d’accordo con l’Inghilterra), appariva intollerabile. I fanatici volevano la guerra fino all’ultimo sangue, mentre invece il re e la regina madre continuavano a seguire la solita politica della loro casa offrendo in ogni occasione pace o tregua ai ribelli, dominati ancora dall’assurda idea che in uno stato cattolico potesse trovar posto anche il libero culto pubblico degli ugonotti. Il trattato del 14 maggio 1576 parve ai cattolici poco migliore di una capitolazione. Si formò allora un’unione cattolica, nota comunemente sotto il nome di Lega, sotto il patronato del papa e del re di Spagna, con lo scopo di rafforzare la spina dorsale dell’ortodossia romana in Francia. Nel 1584 moriva Monsieur, figliuolo minore di Caterina e unico fratello sopravvissuto a Enrico; e poiché il re era senza figli prossimo erede al trono appariva ormai Enrico di Navarra. "Meglio una repubblica che un re ugonotto" era il motto dei membri della Lega di Parigi. Contro i Guisa, sostenuti ora da questo sentimento di furore appassionato, Enrico III fu per molti anni impotente. Tirò avanti, protetto da assassinii, circondato da una rete di congiure, mentre la vera autorità sulla Francia cattolica era esercitata dalla Lega. La sua debolezza apparve evidente il giorno delle Barricate (12 maggio 1588), quando Parigi, obbediente al cenno di Enrico, duca di Guisa, impedì alle truppe reali di entrare nella città; e di nuovo quando gli Stati Generali, riunitisi a Blois per iniziativa dei Gesuiti, approvarono una serie di disposizioni che, attuate, avrebbero prosciugato il tesoro e tolto al governo anche l’ultima parvenza di autorità. Da queste umilianti condizioni lo sciagurato re, “il peggior governante della peggior dinastia che mai governasse”, cercò salvezza con l’assassinio. Avvicinandosi il Natale del 1588, il duca di Guisa e suo fratello, il cardinale di Lorena, caddero trafitti nel castello di Blois dai sicari guasconi del re. La vecchia regina madre giaceva sul suo letto di morte, quando il figliuolo favorito le portò la notizia. "Ora sono veramente il re di Francia", disse, a quanto si riferisce, "ho ucciso il re di Parigi." "Dio lo voglia", fu la risposta; "ma sei sicuro delle altre città?". Ed eccoci all’ultimo atto del lungo dramma. Mentre la Lega cattolica deponeva Enrico dal trono e cercava di governare la capitale e il paese, i pensieri d’un numero sempre maggiore di francesi, né ugonotti né leghisti, si volgevano a Enrico di Navarra, cui legalmente spettava la successione. Il giovane meridionale aveva rivelato notevoli qualità militari, dimostrando a Coutras che un esercito ugonotto, ben guidato, poteva battere in battaglia aperta le truppe cattoliche della Corona. Il suo buon umore, la sua rozza astuzia, i suoi numerosi atti di bravura lo rendevano popolare tra i semplici. Era un protestante, ma era un uomo, mentre il re suo cugino, che portava una collana di perle e gli orecchini, pur essendo cattolico, era un vanesio inconcludente. Era interesse comune dei due cugini attaccare la Lega cattolica che aveva deposto l’uno e dichiarato l’altro indegno della successione. Ma mentre i loro eserciti si trovavano fuori di Parigi, la mano d’un giacobino fanatico, Jacques Clément, colpiva il re (1° agosto 1589), ponendo termine alla lunga dinastia dei Valois in Francia e aprendo la via a una lotta diretta tra il Navarra e la Lega. Il comitato dei sedici che dominava Parigi a nome della Lega, sotto la direzione del duca di Mayenne, fratello minore di Enrico di Guisa, governò, come il comitato di salute pubblica del 1794, col sistema del terrore. I suoi difensori dicono che salvò la Francia al cattolicesimo, meglio adatto al suo popolo che non il protestantesimo, e che i suoi delitti furono tali da disgustare il paese della repubblica per ben duecento anni. Durante il suo governo violento e impopolare rinacque in Francia la convinzione che la restaurazione della monarchia ereditaria sarebbe stata il miglior rimedio alle discordie interne. Non si volle accettare un’Infanta dalla Spagna, né un nobiluomo francese eletto dagli Stati Generali. II meglio dell’aristocrazia francese si radunò intorno al principe borbone. Ma il fanatismo era così tenace che, anche quando Enrico ebbe abiurato la fede protestante nella chiesa di St. Denis (25 luglio 1593), dovette rimanere ben otto mesi fuori dalle mura di Parigi, prima di poter sopraffare la resistenza della città. Il nuovo sovrano possedeva una virtù più preziosa di tutte le eleganti qualità dei Valois: si preoccupava del popolo francese e desiderava renderlo prosperoso e felice. Le memorie del suo abile ministro ugonotto, Sully, benché non degne di fede in molti punti, dimostrano tuttavia che, sotto Enrico IV, il governo della Francia s’inspirava all’idea del bene pubblico. Domare l’anarchia, promuovere l’agricoltura e il commercio, ridar pace a un paese ridotto alla più nera miseria da trent’anni di guerra civile, ecco alcuni degli scopi che la monarchia francese perseguiva ora risolutamente. Molto si fece, con grandi opere pubbliche, per la bonifica delle paludi e il miglioramento delle strade. Si aumentarono i redditi, si diminuirono i debiti. Avendo trovato il paese sotto il peso di un grande deficit, Sully lo lasciò finanziariamente solvibile. Ma, prima di poter bene applicare questi provvedimenti, Enrico fu costretto a risolvere i due urgenti problemi rappresentati dagli spagnoli e dagli ugonotti. Con l’aiuto della regina Elisabetta, cacciò un esercito spagnolo da Amiens e costrinse la Spagna (Trattato di Vervins, 1598) ad abbandonare tutte le posizioni – Calais e Blavet nella Bretagna – che, come alleata della Lega cattolica, aveva occupato sul territorio francese. Assai più difficile il problema rappresentato dagli ugonotti. Questi uomini ferrei, che da più di trent’anni resistevano alla corona francese ed erano in grado, in qualsiasi momento, di mettere in campo un esercito di 25.000 uomini, non potevano essere facilmente sottomessi e pretendevano di trattare col sovrano alla pari. Il famoso accordo, noto sotto il nome di Editto di Nantes, non fu un atto di grazia reale, e meno che mai una dichiarazione filosofica di tolleranza, bensì un trattato raggiunto soltanto dopo ardui e lunghi negoziati e accettato con riluttanza, come una necessità imposta da fatti sgradevoli e ineluttabili. Tale editto dava agli ugonotti libertà di culto nei castelli dei nobili e in certi luoghi speciali, uguaglianza di diritti civili, protezione giudiziaria e, per loro maggior garanzia, il diritto di tener guarnigioni in più di cento città fortificate, tra cui grandi centri nazionali come La Rochelle, Saumur e Montpellier a spese della finanza francese. In una parola, permetteva a un piccolo stato ugonotto, con il suo esercito, le sue fortezze, il suo governo civile, di vivere nel cuore della Francia. L’Editto di Nantes è notevole nella storia della civiltà come primo pubblico riconoscimento del fatto che nello stesso stato possano coesistere più comunità religiose. Assai prima che fosse riconosciuta in Inghilterra o in Germania, la tolleranza religiosa, entrò, in virtù di questo famoso documento, a far parte della legge costituzionale di Francia. Il forte braccio dell’ugonotto aveva strappato all’avversario cattolico concessioni su cui nessun fautore della Chiesa romana avrebbe mai accettato di discutere. Nel brillante periodo della storia francese che seguì, la monarchia fu esaltata e consolidata, il campo dell’industria e del commercio notevolmente ampliato, e la vita della chiesa cattolica stimolata e arricchita dalla sfida e dalla sovrapposizione della fede ugonotta. Ma la cieca intolleranza e l’ambizione guerresca erano destinate a render vani tali vantaggi. Scaligero, il grande filologo classico, disse di Enrico che, nonostante il suo spirito e la sua acuta intuizione della natura umana, era incapace di fissare il suo pensiero sull’avvenire per un quarto d’ora di seguito. Uno statista più previdente avrebbe cercato di governare con l’aiuto degli Stati Generali, si sarebbe rifiutato di richiamare i Gesuiti banditi dalla Francia nel 1594 come corruttori della gioventù, disturbatori dell’ordine pubblico e nemici del re e dello stato, e avrebbe decisamente rinunciato all’idea di un’ambiziosa guerra coll’estero. Enrico IV, continuamente minacciato dal pugnale dei sicari, viveva invece alla giornata sulle improvvisazioni del suo ingegno vivace. Nonostante la sua promessa formale, fidando nella saggezza dei consiglieri, rifiutò di convocare gli Stati Generali e di dividere coi sudditi la responsabilità morale del governo. In religione fu tollerante alla maniera di Caterina de’ Medici; il che non gl’impedì di richiamare ì Gesuiti, la cui intollerante potenza a corte e sull’educazione francese avrebbe provocato la espulsione degli ugonotti e l’annullamento dell’Editto di Nantes, ch’era stato la sua impresa migliore. Nella politica estera, ondeggiò per qualche tempo – dopo la pace di Vervins nel 1598 – tra l’idea di una solida pace con la Spagna, cementata da matrimoni reali, e di un attacco agli Absburgo; ma alla fine volse i suoi pensieri alla guerra e a una politica. simile a quella seguita dal Coligny circa cinquant’anni prima, di un grande attacco contro gli Absburgo cattolici, coll’aiuto dei protestanti della Germania e dei Paesi Bassi, allo scopo di conquistare i Paesi Bassi spagnoli, e di estendere la frontiera francese sino al Reno. La questione se il ducato di Clèves-Julich, situato sulla frontiera orientale della Francia, dovesse far parte del blocco cattolico o del protestante, offrì il pretesto per l’azione. Senza un’adeguata preparazione diplomatica, e soprattutto spinto alla scelta del momento dalla sua passione per la duchessa di Condé che il marito aveva richiamata alla corte austriaca di Bruxelles, egli stava per iniziare la sua grande impresa anticattolica quando cadde sotto il coltello del cattolico fanatico Ravaillac. Neanche il ritorno dei Gesuiti era stato sufficiente a disarmare lo spirito della Lega.
H.A.L. Fisher, Storia d’Europa, volume II, traduzione di A. Prospero, Laterza, Roma-Bari 1973. |