Il 17 aprile 1521
Martin Lutero comparve dinnanzi all'imperatore Carlo V,
a Worms, che lo aveva convocato per ordinargli di ritrattare le sue
posizioni considerate eretiche dalla Chiesa. L'indomani, dopo un drammatico
confronto con l'avvocato imperiale, Lutero oppose un fermo rifiuto
enunciando un nuovo criterio di verità religiosa: "Finché non mi convincerà
di essere in errore la testimonianza della Scrittura o la forza trasparente
del ragionamento [...] io mi atterrò a quei passi della Scrittura a cui ho
fatto appello. La mia coscienza è prigioniera della parola di Dio e io non
posso, né voglio ritrattare alcunché. Agire contro la propria coscienza non
è né prudente né lecito. Qui sto fermo. Non posso fare altro. Dio mi aiuti.
Amen." Per secoli, la regula fidei aveva imposto di giudicare le
proposizioni religiose sulla base del loro accordo con la tradizione della
Chiesa, ossia con i concili e i decreti papali. Ora, rivendicando il primato
della coscienza, un piccolo monaco tedesco innescava una rivolta
intellettuale destinata a segnare il destino dell'intera civiltà
occidentale.
Il viaggio da Wittenberg a Worms era stato una marcia trionfale, accompagnata dallo
splendore primaverile di boschi e prati: Lutero non andava a piedi, questa
volta, perché il consiglio della città di Wittenberg gli aveva messo a
disposizione una carretta da viaggio a quattro ruote coperta per riparare dal
sole o dalla pioggia, e due cavalli. Alle spese di viaggio sopperì
l'Università.
Da Wittenberg, attraverso le tappe di Lipsia, Erfurt, Eisenach, Hersfeld,
Francoforte, a Worms; con lui erano il collega Nicolò Amsdorf, un confratello
e uno studente pomerano: gente coraggiosa e risoluta che avrebbe difeso Lutero
se ci fosse stato qualche incidente, e che, se fosse andata male, sapeva che
sarebbe finita sul rogo con lui. Lungo la strada e nelle città dove fece
tappa, la gente del popolo accorreva di lontano, per vedere quel monaco ardito
che si opponeva alle più alte autorità del mondo cristiano. [...]
Quando passava o arrivava in un villaggio o in una città, l'araldo imperiale,
a cavallo, precedeva il carro, vestito di panni curiali, adorni delle insegne
dell'Impero. L'accoglienza più splendida era stata quella di Erfurt, che vent'anni
prima lo aveva visto immatricolarsi nell'università; ora, non alla porta, ma
al confine del territorio della città, il carro del professore era stato
accolto solennemente dal rettore dell'Università accompagnato da un corteo di
cavalieri in gran gala. A Erfurt Lutero predicò a una folla così grande che le
assi della galleria scricchiolarono sinistramente, e stava già per cominciare
il panico; ma Lutero lo scongiurò dicendo scherzosamente: "Riconosco le tue
astuzie, o Satana". Un giovane teologo di Erfurt, Justus Jonas, aveva avuto
l'idea di accompagnare Lutero, cavalcando accanto al carro: e, man mano, fu
imitato da molti altri, e a Worms questa scorta d'onore ammontava a cento
cavalli. Accanto a questi entusiasmi, la tradizione racconta che dal tetto
della chiesa di Ghota pietre erano cadute (opera del diavolo!), dopo che
Lutero vi ebbe detto la messa: questi fatti e il mormorio che li accompagnava,
indicano come l'atmosfera fosse tesa e carica di presagi. Ma c'era di peggio:
mentre Lutero faceva il suo viaggio, Girolamo Aleandro aveva ottenuto una
vittoria diplomatica: ancora in Turingia, arrivò a Lutero la notizia che un
editto imperiale ordinava che gli scritti dell'eretico professore fossero
consegnati da chiunque ne possedesse, e distrutti. Voleva dire: se Lutero non
ritratta, verrà messo al bando dall'Impero. Lutero proseguì, con quel senso
tragico-eroico che abbiamo ricordato: "ci andrò contro tutti i diavoli
dell'inferno"; si ammala, viene salassato, prende una medicina, può riposare e
partire. A Francoforte pare che Lutero facesse gran bevute di vino malvasia,
con gran risa, assieme ai compagni di viaggio, e che avesse suonato il liuto e
cantato. Il giorno dopo, il corteo passa il Reno e si ferma a Oppenheim: di
lì, bastavano tre o quattro ore di strada per arrivare a Worms.
Ad aspettare Lutero all'albergo c'è Martin Bucero, suo fedelissimo seguace,
che porta lettere del Sickingen e di Hutten; il confessore di Carlo V era
andato al castello del Sickingen, la Ebernburg, e consigliava che Lutero
andasse là, al sicuro, invece che a Worms: e là, nel castello del cavaliere
capitano d'una grossa banda di lanzi, Lutero avrebbe poi potuto discutere con
il vescovo di Treviri, che avrebbe avuto missione speciale dell'imperatore per
queste trattative, e che era notoriamente favorevole alla nuova dottrina.
Sulla mensa c'è una lettera spaventata dello Spalatino (che aggiunge agli
scongiuri di non essere temerario: "scrivo per conto mio; Federico tace").
Quasi alla soglia della morte, Lutero tornerà, parlando con gli amici, su quei
giorni del viaggio per Worms; è un discorso un po' confuso, dal quale risulta
tuttavia chiaro come Lutero ritenesse che se i nemici non lo volevano a Worms,
questa era una buona ragione per andarci, e che non aveva paura: "Ero
imperterrito e intrepido: non avevo paura di nulla; certo, Iddio solo può fare
impazzire un uomo fino a quel punto; non so se sarei tanto allegro, adesso". A
Worms il carro del dottor Martin Lutero si dirige verso la residenza del suo
signore, il principe elettore, nella casa dell'ordine di san Giovanni: con
molte vie d'uscita, passaggi fra orti e giardini.
La folla era tanta, che quasi non si poteva passare: per vedere il dottor
Lutero la gente era salita sui tetti. Neppure l'ingresso dell'imperatore Carlo
V era stato così solenne. Il giorno dopo Lutero viene invitato a recarsi alla
dieta, e per evitare la ressa delle strade, viene guidato attraverso giardini
e vicoli; poi viene fatto attendere per due ore ai piedi delle scale, in mezzo
a guardie e sollecitatori. Potevano essere anche espedienti psicologici, per
stancarlo, frastornarlo, irritarlo sí da potergli far commettere qualche
errore irreparabile, oppure per intimidirlo.
All'improvviso Lutero si trova davanti al trono dell'imperatore, solo, senza
neppur sapere come muoversi condegnamente, perché non aveva mai parlato con
príncipi e sovrani: e non c'era dubbio che il capo secolare della cristianità
era sfavorevolmente prevenuto contro di lui. Oltre a Carlo V, impassibile,
silenzioso e scrutatore, tutti e sette i príncipi elettori, e i banchi degli
altri ordini dell'Impero pieni zeppi. I pontifici non erano presenti, in segno
di sdegnata protesta. Lutero aveva avuto alcuni avvertimenti dal gran
marescalco (a gran voce, quello: anzitutto, non parlare, se non interrogato).
I libri di Lutero sono buttati alla rinfusa su un tavolo, e il loro autore
viene interrogato dall'avvocato cesareo. La domanda è: "Riconoscete per vostri
questi libri su questo banco? Li volete ritrattare, o volete ostinarvi nelle
dottrine ivi esposte? Riflettete che in questi libri ci sono molte cattive
dottrine, che hanno provocato insoddisfazione e ribellione nel popolo".
L'avvocato aveva parlato in latino e in tedesco. Lutero sembrava intimidito
dalla maestà dell'imperatore e dallo sprezzo che suonava nelle parole
dell'interrogante. Un vecchio giurista, presente come consigliere di Federico
il Saggio, ruppe la pericolosa tensione, e intervenne: "Intitulentur libri"
(Si leggano i titoli di questi libri). Comincia la lettura. Lutero così può
riprender controllo. Scrivono i notai, molti signori del banco delle città
fanno appunti, anche Lutero prende nota, e osserva che la lista, come vien
letta, è incompleta, non c'è ordine, non c'è distinzione, alcuni titoli sono
letti male.
Finita la lettura, tocca a Lutero. A voce così bassa che solo i più vicini lo
possono sentire, ma chiaramente, in latino e in tedesco, egli risponde che i
libri li riconosce per suoi (salvo possibili falsificazioni dei suoi
avversari); quanto alla ritrattazione, si tratta – dice il professore di
lettura ed esegesi della Bibbia – della parola di Dio. Temerario e pericoloso
parlare senza riflettere; si può dir troppo, si può dir troppo poco; e tanto
il troppo che il pochissimo cadrebbero sotto il giudizio divino (chi mi
rinnega fra gli uomini, lo rinnegherò davanti al mio padre celeste). Prega
quindi gli sia concessa una proroga, per poter riflettere. [...]
Cesare e i suoi consiglieri, i príncipi elettori, gli altri agli ordini
dell'Impero deliberano, votano, e l'avvocato imperiale dichiara che Lutero non
è meritevole di una proroga per riflettere, ma che la imperiale maestà
cesarea, per sua innata benignità, gli concede ventiquattro ore: ma per una
risposta a voce, non per una risposta scritta. Il gruppo dei nemici non
avrebbe voluto la proroga, perché capiva che certe intimidazioni non si
possono ripetere con successo. Carlo V, dopo la seduta, aveva esclamato
sprezzantemente: "Non sarà costui a farmi eretico". Lutero non sapeva né
questi né altri particolari. Sapeva che non avrebbe ritrattato (come scrive a
uno dei suoi protettori di Vienna): aveva da prepararsi a dirlo bene, il suo
no, come si conveniva, anche sotto la ferula della suprema autorità e maestà.
Anche questa volta, deve attendere a lungo dopo l'ora che gli era stata
assegnata. Quando Lutero entrò nella sala, era così scuro che si erano dovute
accendere le fiaccole, aumentando così il caldo sciroccoso di quella sera
primaverile. L'avvocato cesareo comincia col meravigliarsi "come in questioni
di fede ci sia tanto da pensare e riflettere: nelle cose della fede non c'è
dubbio, non ci può essere dubbio per nessuno. Rispondete dunque". Sempre in
latino e in tedesco. In latino e in tedesco risponde Lutero, a voce più alta,
scusandosi anzitutto se non si comporterà secondo le corrette regole di corte.
Seguita distinguendo fra i suoi libri: primo, quelli di fede e devozione: non
può ritrattarli; infatti perfino gli autori della
bolla li considerano
innocui, benché li condannino; secondo: quelli di critica al papato e ai
papisti; per questi, si richiama anzitutto alle lamentele della nazione
tedesca, vincolata lamentevolmente nelle coscienze, dissanguata economicamente
da Roma; dichiara ed esemplifica, mediante citazioni canonistiche, il suo buon
diritto di criticare i papi che disubbidiscono alla dottrina evangelica e ai
detti dei padri: buon diritto suo, del dottor Martin Lutero, come di ogni
buono, vero e fedele cristiano. Non può in coscienza ritrattare quegli
scritti, neppure per doveroso ossequio alla cesarea maestà imperiale e al
Sacro Romano Impero nel suo complesso: sarebbe volere coprire le vergogne
della malvagità e della tirannia; terzo: gli scritti contro persone che
avevano voluto protegger la tirannide romana, e che avevano voluto far
scomparire la vera dottrina cristiana da lui professata: in questi scritti,
forse, Lutero può essere stato più aspro di quanto si conviene a un cristiano,
e accetterà biasimo e critica, perché non ritiene di essere un santo; è pronto
alla ritrattazione, ma non per quanto riguarda la dottrina. Potrà fare una
ritrattazione solo se gli sarà dimostrato che le sue dottrine sono erronee, e
non fondate sulla Scrittura; pregando l'imperatore, in nome della misericordia
divina, e tutti i chiarissimi e serenissimi signori e chi altri si volesse, di
convincerlo d'avere errato. Continua dichiarando che ha riflettuto seriamente
al pericolo di discordia e di disordini che poteva venire dalla sua dottrina
della vita cristiana: ma che Gesù Cristo aveva pure annunciato: non sono
venuto a portar pace... Che la sua dottrina porti alla persecuzione di chi la
professa, e in generale al disordine, è prova che viene da Dio. Riportare la
quiete pubblica accettando l'ingiustizia provocherebbe un diluvio di mali ben
più insopportabili. Non parla così, con tante citazioni, perché questo giovane
nobile imperatore Carlo ne abbia bisogno: ma affinché i cattivi consiglieri
non gli procurino uno sciagurato inizio; e anche perché è suo dovere verso la
nazione tedesca. Conclude pregando umilmente l'imperatore di proteggerlo
contro i suoi avversari, che cercano di metterlo in disgrazia.
Finito il discorso in latino, era chiaro come Lutero fosse riuscito a
pronunciare il suo rifiuto, il suo "no", anche al cospetto dell'imperatore, ma
come fosse emozionato e stanco, quasi si fosse dovuto far forza, strappandosi
quel "no". Quando si cominciò a chiedere la traduzione tedesca, uno dei
consiglieri dell'elettore di Sassonia avvertì Lutero che, se era troppo
stanco, bastava così; questo fu sufficiente perché Lutero si riprendesse e
ripetesse il discorso in lingua tedesca.
A un cenno dell'imperatore, l'avvocato imperiale s'alzò a rispondere che da
Lutero si richiede la ritrattazione di eresie vecchie e da lungo tempo
confutate; non è possibile che Lutero voglia dire che la Chiesa è vissuta in
errore fino all'arrivo di Lutero stesso; ritratti Lutero le sue proposizioni
ereticali, specie quelle già condannate a Costanza, e la imperiale maestà
cesarea userà la sua grazia verso gli altri libri. Se a ognuno fosse permesso
cercar nella Scrittura prove o controprove per tutto quello che da tempo
immemorabile era stato definito, nella cristianità nulla ci sarebbe di certo e
sicuro. Dia Lutero una risposta univoca, semplice e chiara. Lutero risponde
che, se l'imperatore così vuole, egli dichiara semplicemente e univocamente
d'essere pronto a ritrattarsi solo se sarà convinto per scrittura o
ragionamento, poiché è pericoloso per la salvezza dell'anima fare qualunque
cosa contro la propria coscienza. L'avvocato imperiale perde la pazienza, e
gli replica di smetterla con la sua coscienza. Pensa forse, il Martinus, di
esser solo lui ad aver ragione, e che il sacro e santo concilio, con tanti
sapienti vescovi e signori, abbia sbagliato? "Ebbene sì, – risponde Lutero, –
hanno sbagliato e per molti articoli: è chiaro come il sole, e lo dimostrerò.
Che Dio mi aiuti: sono pronto". Carlo V dichiara che ne ha abbastanza e,
alzandosi, chiude la seduta.
Quando la scorta gli si avvicina, nel tumultuoso gridare dei presenti, gli
amici accorrono temendo un arresto. Lutero li calma: "Non mi arrestano, mi
accompagnano". Arrivato alla sua stanza, "alzò le braccia in alto – racconta
una testimonianza coeva – come fanno i vincitori nel torneo", esclamando: "Ce
l'ho fatta!" ("Ich bin hindurch"). La sera tardi il principe elettore Federico
il Saggio chiamò lo Spalatino per dirgli che Pater Martinus aveva parlato bene
di fronte al signor imperatore e ai príncipi e agli ordini dell'Impero;
tuttavia, per lui, Federico, Lutero era un po' troppo temerario. A ogni modo,
il gran "no" era stato detto. Certo, in un certo senso, non era errato il
discorso dell'avvocato dell'Impero: se si deve tornare sempre a ridiscutere
tutto sulla base della Bibbia, non si finisce più. Dopo il rifiuto di Lutero
di accettare l'invito alla ritrattazione, la contesa e la discussione
religiosa – non che ce ne fossero prima – non sono più finite, in un modo o
nell'altro, nella sfera della cristianità, e, ormai, sulle fondamenta nuove
della Sacra Scrittura e della giustificazione per fede.
Delio Cantimori, Martin Lutero, in M. Lutero, Discorsi a tavola, a cura di L.
Perini, Einaudi, Torino 1969. |